Apiterapia: applicazioni terapeutiche (I Jermini-Gianinazzi)

L’articolo "Bee venom therapy: Potential mechanisms and therapeutic applications"[1], datato 2018, analizza le varie proprietà farmacologiche del veleno d’api alla luce dei possibili meccanismi d’azione.

Il veleno d’api è una mistura d’acqua e di numerose proteine, la più conosciuta è la melittina. Il veleno ha numerose proprietà terapeutiche (antiinfiammatorie, antiossidanti e antiapoptosi), documentate già 3000 anni fa nella medicina tradizionale cinese. Per l’estrazione è stato messo a punto un metodo che sottopone le api a scariche elettriche provocandone l’estrazione del pungiglione ed emissione del veleno. Questo cristallizza e può essere così raccolto e conservato a lungo senza perdere le sue proprietà. Un altro sistema in voga, ma più cruento, consiste nell’impiegare le punture dirette dalle api. Il veleno d’api è disponibile in commercio, distribuito dalle industrie farmaceutiche, per la preparazione di vaccini per la desensibilizzazione o per test per la valutazione del grado di sensibilità. In Svizzera viene distribuito per la desensibilizzazione come ALUTARD SQ Apis mellifera, il cui costo è considerevole anche se rimborsato dalle casse malati (ca. 360.- CHF ogni 5 mesi, senza i costi aggiuntivi dovuti alla somministrazione sotto controllo medico). Per garantire la protezione immunitaria a lungo termine, la terapia deve proseguire per almeno 3 - 5 anni, durante i quali il paziente riceve una dose di mantenimento una volta al mese.

La medicina tradizionale cinese ha introdotto l’apiterapia per curare malattie infiammatorie, in particolare legate alla sfera reumatologica. Ricerche più recenti ne hanno documentato le virtù anche per curare malattie neurologiche degenerative (Parkinson, SLA,…).

L’artrite reumatoide (da non confondere con l’artrosi) è una malattia infiammatoria autoimmune di origine sconosciuta che causa dolore articolare progressivo, grave deformazione e disabilità nonché disturbi sistemici disparati (p.es fibrosi polmonare). La terapia classica consiste nella somministrazione di antiinfiammatori per il controllo del dolore, immunosoppressori come il cortisone, il methotrexate e altri. Nei casi non responsivi agli immunosoppressori o in pazienti con malattia particolarmente aggressiva è possibile utilizzare i farmaci biologici, anticorpi monoclonali o recettori che bloccano molecole dell'infiammazione (es anti-TNFalpha, anti-IL6, anti-IL1) o cellule dell'infiammazione come i linfociti B (anti-CD20) e i linfociti T (CTLA4).

Il veleno d’api è stato studiato nell'ambito della riduzione dei sintomi dell’artrite come pure la progressione della malattia reumatologica, anche in combinazione con una terapia classica. Gli studi su ratti sono molto promettenti, mentre su umani sono meno affidabili statisticamente, non potendo comparare a doppio cieco i soggetti sottoposti ai diversi bracci di trattamento e a placebo.

L’articolo analizza quindi tutta una serie di studi per le varie malattie neurologiche degenerative, per la fibrosi epatica e per l’arteriosclerosi. Come funzionino esattamente tutti i meccanismi d’azione dei vari enzimi non è ancora completamente chiaro e questo limita per il momento studi più estesi sul tema.

Purtroppo un grosso limite degli studi è la possibilità per i partecipanti di incorrere in effetti negativi locali e sistemici dopo la somministrazione del veleno d’api.

Il veleno d'ape è contenuto anche in diverse preparazioni cosmetiche - creme, lozioni, compresse, gocce - utilizzate nel trattamento di affezioni cutanee.

In Italia esiste l’Associazione Italiana Apiterapia che divulga la conoscenza dei principi terapeutici dei prodotti delle api, in modo da diffonderne l’uso coadiuvante alla medicina tradizionale.

Per curiosità nel sito qui riportato viene pubblicizzato un apparecchio per la raccolta del veleno d’api con video molto interessanti  https://www.beewhisper.com/.

 

Riferimento bibliografico

[1] Zhang S, Liu Y, Ye Y, et al. Bee venom therapy: Potential mechanisms and therapeutic applications. Toxicon. 2018;148:64-73. doi:10.1016/j.toxicon.2018.04.012

Accedi per commentare