Daniele Besomi

 

Che gli insetti impollinatori siano utili (e in diversi casi anche indispensabili) alla produzione di molte colture è ormai ben noto.  Si stima che quasi l’80% delle piante di interesse agricolo dipendano, in qualche misura, dall’impollinazione animale, per un corrispondente di valore di circa un terzo della produzione mondiale —il divario dipende dal fatto che alcune piante di larghissimo uso, in particolare grano, riso e mais, sono impollinate quasi esclusivamente tramite il vento. Il valore monetario del contributo di questi insetti può essere calcolato: uno studio del 2011 lo valuta in 192 miliardi di $ a livello mondiale, mentre per la Svizzera per il 2014 si stimano 342 milioni di Fr.

Gli impollinatori (come del resto molte altre specie di insetti autoctoni) sono tuttavia soggetti a forti diminuzioni di numero, sia in termini di specie che di individui, a causa del continuo uso di pesticidi, tanto in agricoltura come nei giardini, pesticidi che non colpiscono solo le specie dannose ma tutti gli insetti; delle coltivazioni intensive e delle monocolture, che privano di cibo gran parte delle specie di insetti che hanno bisogno di varietà di risorse; della diminuzione di biodiversità e di luoghi adatti alla nidificazione in seguito all’uso sempre più intensivo della terre per l’agricoltura e per l’edilizia; e della crisi climatica, con i conseguenti cambiamenti nelle risorse idriche e nettarifere e lo sfasamento temporale tra fioriture e presenza degli impollinatori specialisti.

Alcune specie di impollinatori sono, almeno parzialmente, sostituibili tramite la movimentazione di api mellifere; ma queste ultime non sono sempre altrettanto efficienti e non sono adatte a tutti i tipi di fiori, e del resto sono a loro volta soggette a morìe ricorrenti: in Svizzera, per esempio, dal 2013 al 2021 (ultimi dati disponibili), le perdite annuali di colonie d’api sono passate dal 25 al 37% del patrimonio apistico nazionale principalmente a causa di irrisolti problemi nelle indicazioni sulla gestione dei parassiti (i dati sono pubblicati annualmente nel numero di giugno dello Schweizerisce Bienenzeitung); anche se ogni anno vengono prodotte nuove colonie, è evidente che anche qui ci sono difficoltà considerevoli.

È chiaro che la diminuzione di insetti impollinatori comporta delle perdite economiche per il settore agricolo, in particolare per i prodotti più pregiati, quelli che assicurano un maggiore valore aggiunto: ovviamente la frutta e la verdura, ma anche la flora spontanea che costituisce il foraggio del bestiame da latte e dalla cui qualità e varietà dipende il pregio dei formaggi. Più sorprendente, invece, un altro risvolto del problema evidenziato da uno studio recente, che mette in relazione le perdite di impollinatori con la diminuita disponibilità di frutta e verdura che, in seguito all’aumento di prezzo dei prodotti agricoli più vitaminici, ne riduce il consumo per certe fasce di popolazione, comportando corrispondentemente un degrado della loro salute che può persino arrivare ad essere fatale.

Il complesso nesso tra impollinatori e salute umana

La procedura di calcolo è piuttosto complicata, ma conviene riassumerne i passaggi essenziali per dare un’idea della complessità dei nessi di causa e di effetto presi in considerazione nello studio. L’analisi è multidisciplinare, poiché tiene in considerazione fattori agronomici, biologici, economici e medici. Il primo passo riguarda i rendimenti agricoli: poggiandosi sui risultati di studi precedenti, gli autori confrontano il rendimento effettivamente ottenuto con il potenziale agronomico di ciascun raccolto potenzialmente ottenibile data la zona climatica. Questo ha permesso di elaborare una mappa geografica del divario produttivo rispetto al potenziale. Il secondo passaggio mette in relazione questa perdita con la parte attribuibile alla scarsità di impollinatori, dato il modo di produzione agricolo prevalente in ciascun luogo (dalla produzione agricola intensiva convenzionale alle pratiche della tradizione locale, passando dalle colture biologiche). Anche per i dati sulla scarsità di impollinatori gli studiosi si basano su studi pubblicati in precedenza, e fanno riferimento a parametri quali il numero di specie di insetti che visita ciascun fiore, il grado di intensità della coltura, l’uso di fertilizzanti e erbicidi, la vicinanza con altre colture o con habitat naturali, e il grado di dipendenza di ciascun raccolto dagli impollinatori animali.

La parte economica del modello serve a tener conto del fatto che il luogo in cui il cibo viene consumato non dipende da quanto prodotto localmente, ma dal prezzo di ciascun prodotto, che a sua volta dipende dalla domanda e l’offerta globale di quel bene. Non solo i consumatori adattano le proprie scelte al prezzo, ma anche i produttori, che partiranno dal prezzo spuntato quest’anno per decidere cosa coltivare l’anno prossimo, e in questo modo le quantità che produrranno andranno ad influenzare ancora il prezzo dell’anno successivo. Le interazioni sono dunque complesse, poiché le decisioni sia dei consumatori che dei produttori dipendono, e a loro volta influenzano, sia le quantità prodotte e consumate, ma anche il modo di produzione (p.es., il grado di intensità agricolo). Qui il fattore che ci interessa per lo scopo che gli autori perseguono è come il prezzo dei prodotti contribuisce a determinare la dieta dei consumatori.

Questo ci porta alla parte medica del modello, che considera diversi fattori di rischio legati alla dieta in diverse regioni del mondo e per diverse fasce di reddito. Questi fattori di rischio includono l’alto livello di consumo di carni rosse, il basso consumo di frutta, verdura, noci e legumi, e il peso dei pazienti. La presenza di qualcuno di questi fattori può portare ad esiti quali malattie della circolazione e infarti, cancri (in particolare al colon e al retto) e diabete di tipo 2. Anche queste relazioni tra rischio e esito sono ricavate da ricerche precedenti. Naturalmente il modello include qualche grado di incertezza, per esempio tra l’insufficiente impollinazione e il rendimento del raccolto, di cui si tiene conto con metodi statistici che permettono di stabilire degli intervalli per i quali le conclusioni sono valide.

I risultati: oltre 400'000 morti all’anno attribuibili alla mancanza di impollinatori

            Gli autori stimano che globalmente nel mondo nel 2020 si è perso il 4.7% della produzione agricola di frutta (min 0.8%, max 7.1%, con livello di confidenza al 95%), il 3.2% dei raccolti di verdure (0.4 – 5.3%), e il 4.3% della produzione di noci (0.5 – 6.9%). Ciò permette di stimare un eccesso di 427'000 morti evitabili all’anno (tra 86'000 e 691'000) dovuti alla scarsità di impollinatori, soprattutto in seguito a malattie croniche.

Questa mortalità in eccesso non è ripartita uniformemente nel mondo. Il divario produttivo è maggiore nei paesi a basso e medio-basso reddito (in questi ultimi si parla di riduzione del 10% della produzione di frutta e del 13% di quella di verdura). A causa del commercio internazionale, però, le variazioni di prezzo fanno sì che l’effetto si veda altrove: più modesto nei paesi molto poveri (Africa sub-Sahariana:  0.3% della mortalità totale), più marcato in Nord America e in Europa (dell’ordine dell’1.1 e 1.2%, rispettivamente), nei paesi a reddito alto e medio-alto. In termini di anni di vita persi pro capite a causa di una cattiva dieta, i valori più alti si verificano nell’Asia centrale e nell’Europa orientale.

Gli autori ritengono che la loro stima sia tutto sommato piuttosto prudente: da una parte il modello, focalizzando sulle malattie vascolari, diabete e cancri non considera infatti gli effetti di deficienze alimentari basate sulla carenza di micronutrienti, in particolare la vitamina A e l’acido folico, che si trovano in gran parte nei prodotti impollinati dagli insetti, carenze che sono ancora responsabili di diverse malattie. D’altro lato va anche considerato l’effetto sul reddito dei paesi produttori: i mancati raccolti portano a una riduzione di reddito in paesi nei quali il reddito agricolo è spesso una componente importante del reddito complessivo, così che ci si può aspettare che ci siano ripercussioni sulla dieta (e dunque sull’incidenza delle patologie) di queste popolazioni. Infine, altri benefici sulla salute dei paesi molto poveri derivano dall’uso di prodotti dell’alveare e dall’impollinazione di piante medicinali, anch’essa influenzata dalla carenza di impollinatori.

Non solo soldi

            Le implicazioni di questo lavoro sono chiare. La prima è che le relazioni tra gli insetti e il nostro sistema alimentare sono ben più complesse di quanto potrebbe apparire. E, come in ogni sistema complesso, le conseguenze di un intervento su una sua parte possono avere conseguenze della portata ben maggiore e non sempre prevedibile.

            La seconda implicazione è che gli insetti impollinatori non contribuiscono solamente in modo significativo alla produzione di frutta, verdura e noci e alla corrispondente generazione di reddito, ma indirettamente determinano anche la qualità della dieta e quindi la salute umana, con conseguenze quantificabili in termini di perdita di anni di vita e di mortalità in eccesso. Questo dovrebbe costituire un ulteriore richiamo alla necessità di rendere sostenibile la produzione agricola e di edificare in modo responsabile. All’orizzonte, però, non si vedono molti segni di una reale volontà di cambiamento in questa direzione.

Riferimento bibliografico: M. R. Smith e altri, Pollinator deficits, food consumption, and consequences for human health: a modeling study, Environmental Health Perspectives, vol. 130:2, dicembre 2022.

Queste considerazioni sono state pubblicate originariamente su Azione ………. COMPLETARE RIFERIMENTO!!!!!!!!!!!¨

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